biografia - aprigliano

ercole salvatore aprigliano
pittore xilografo
1892-1975
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Ercole Salvatore Aprigliano nasce alla Spezia il 25 gennaio 1892 nella casa di piazza del Mercato allora segnata col numero 10, figlio primogenito di Vincenzo, originario di Aprigliano, piccolo paese del Cosentino, e di Ida Montale, di nascita ligure, entrambi di condizioni modeste che non saranno però d'ostacolo alla crescita di una bella famiglia con cinque figlioli, che si susseguono a pochi anni di distanza l'uno dall'altro.

Già durante la scuola elementare, Ercole rivela la sua inclinazione al disegno e alla pittura e poco più tardi, appena adolescente, dichiara al padre, che sa tutt'altro che disposto ad assecondarlo, la sua intenzione di fare il pittore, come Fossati e Valle, da non molto scomparsi, nei cui dipinti sono rievocati aspetti e scene della piccola Spezia dell'ottocento che gli riempiono il cuore di tenerezza; come Felice Del Santo, che si è formato alla scuola di Nicolò Barabino e che è il pittore del momento, tenuto in gran conto dai benestanti e dai maggiorenti della città e il cui studio, nel palazzotto di via Chiodo oggi adibito a sede del Banco di Napoli, è divenuto un po' il centro di raccolta dei giovani che vogliono dipingere.
Il parere contrario del padre, che naturalmente preferirebbe vederlo occupato in qualcosa di più redditizio, non basta però a farlo desistere dal suo intento e quando si affaccia alla porta dello studio di Del Santo al pianterreno di quel palazzotto di nobile aspetto che è stato tra l'altro in passato sede dell'albergo Croce di Malta e che si ricorda nelle patrie storie per la breve sosta che vi fece, "per volere di popolo", Giuseppe Garibaldi, prigioniero dopo Mentana e in transito, il 5 novembre 1867, per la fortezza del Varignano, Ercole Salvatore Aprigliano non ha forse ancora raggiunto i quindici anni, anche se cerca di portare con disinvoltura sulle spalle il peso di quei lunghi nomi da adulto, dietro i quali spera di nascondere il volto ancora imberbe.
È un ragazzo alto, magro, dagli occhi luminosi e dal sorriso accattivante che "Felissin", di cui è risaputa, nonostante un certo aspetto burbero, l'umana cordialità, non può respingere, vinto dal candore e dallo slancio con cui gli chiede di poter essere avviato alla pittura, anche se non è in grado di pagarsi le lezioni. (Ma in verità Del Santo soleva incoraggiare i giovani che dimostravano attitudine artistica, impartendo gratuitamente i suoi insegnamenti).
Lo studio di Del Santo diventa così ben presto il piccolo regno di Ercole, che nel frattempo è stato ribattezzato Ercolino e che dimostra di saper fare tesoro delle lezioni del maestro, cominciando ad affinare le doti di disegnatore e di pit¬tore che sono innate in lui e che zampillano fuori fresche e immediate dalla scaturigine dell'istinto. Ercolino porta una ventata sbarazzina nell'atmosfera un po' greve dello studio, che conserva un sapore ottocentesco nelle due grandi sale che lo compongono e che prendono luce dai finestroni aperti su un ridente giardino che dà verso il mare, una delle quali destinata al lavoro degli allievi e l'altra a vero e proprio "atelier" del maestro, che qui dipinge i suoi quadri col cavalletto piazzato al centro della stanza e contornato da uno stupefacente scenario di dipinti finiti e da finire, alcuni appesi, altri a terra, inframmezzati da una caleidoscopica collezione di damaschi e scialli, di armi primitive, come archi e lance, di archibugi e fucili d'epoca, di vasi e anfore da antiquariato e di gessi da gipsoteca, un imprevedibile insieme di forme e colori che suggestionano e stimolano la fantasia.
Quando ha eseguito gli ordini che il maestro gli ha assegnato, Ercolino si occupa di mille cose, fa piccole commissioni, si rende in ogni modo utile, scherza con i compagni, declama versi, mette in serbo gli avanzi dei colori che gli altri ragazzi gettano e che invece egli saprà adoperare con paziente sapienza nei suoi dipinti e, quando può, fa sparire, mangiandosela golosamente, la frutta che Caselli porta spesso con sé per le sue nature morte di uva, fichi e mele.
Con Giuseppe Caselli, che ha un anno meno di lui essendo nato nel 1893, si viene approfondendo un'amicizia che durerà nel tempo, non turbata dalla diversità dei caratteri, introverso l'uno e di fondo amaro, estroverso l'altro e di fondo ilare, da cui si originano due opposte concezioni di vita. Nonostante tutto, infatti, sono molti i punti di contatto che li tengono uniti nei giorni dell'adolescenza e della prima giovinezza. Innanzi tutto l'amore per la pittura e poi il piacere di lavorare insieme, di cercare insieme, di raggiungere insieme i primi approdi. Sono in quel momento i due più giovani allievi di Del Santo (Francesco Gamba ed Enrico Carmassi sopraggiungeranno di li a poco, Navarrini se n'è andato a studiare a Firenze, Pietro Gaudenzi vive a Roma col pensionato "Duchessa di Galliera", Emilio Mantelli miete ormai i meritati allori), ma sono anche i più promettenti fra quanti si avvicendano ora nello studio del caro "Felisse", veramente arsi come pochi altri lo sono stati dal sacro fuoco dell'arte.
Aprigliano parla di pittura in termini di fiaba con i compagni dello studio che lo ascoltano incantati. C'è ancora nell'aria il ricordo dei soggiorni a Riomaggiore di Telemaco Signorini, che vi ha dipinto alcune delle sue opere più ammirate e che vi ha disegnato con mano maestra consegnando all'ideale mappa dei luoghi della pittura italiana un paese ancora sconosciuto, con le sue piccole case, le sue straducole, i suoi abitanti, i palpiti della sua vita primordiale. Signorini grandeggia nei sogni di Aprigliano come l'eroe di un'entusiasmante avventura, ma intanto si sta parlando in giro di un altro pittore, che si chiama Antonio Discovolo, un valente pittore venuto da Roma dovè è tenuto in grande considerazione, il quale dopo essersi soffermato per alcun tempo a dipingere a Tellaro e a Porto Venere, ha preso stanza da due o tre anni a Manarola, dove si è anche sposato. Dei suoi quadri, chi li ha veduti dice mirabilia, dicono che nessuno abbia mai dipinto il mare come lui, in uno sfarzo di luci che inebria. Ce n'è abbastanza per esaltare la fantasia dei giovani allievi di Del Santo, ma in particolare di Aprigliano e Caselli, che man mano che progrediscono sulla strada aperta dalle lezioni del maestro, sentono più degli altri il bisogno di allargare la cerchia delle conoscenze, incontrando altri pittori, studiandone le opere, discutendole per portare più avanti lo spirito di ricerca che li anima.
Ma ecco che di lì a poco, nel giugno del 1909, si apre in città, nel ridotto del teatro Civico, una mostra di opere appunto di Discovolo, oli, pastelli e disegni colorati, la maggior parte eseguiti a Manarola. Dinanzi agli occhi affascinati di Ercole e Pino la Pittura apre il suo favoloso regno colmo di tutte le gioie del colore e della luce. E una lezione stupenda che li incanta e li infervora. Nasce da questo incontro con le opere, l'idea di incontrare l'artista, raggiungendolo a Manarola per vederlo al lavoro e parlargli e ascoltarlo parlare, assaporando le sue parole nel brivido dell'emozione.
Quest'incontro ci fu e si replicò più volte ed ebbe un suo peso, soprattutto diremmo sulla formazione di Caselli, piuttosto che su quella di Aprigliano, ma avvenne qualche anno dopo e non a Manarola, bensì a Bonassola, dove intanto Discovolo si era trasferito ed abitava nella villetta liberty che l'architetto Franco Oliva, al suo primo lavoro, aveva progettato per lui dietro compenso di un quadro, quel famoso olio datato 1909 e intitolato "Ultimo sole a Manarola", esposto all'ottava Biennale di Venezia e ricomparso in pubblico nell'antologia discovoliana realizzata nel 1976 dal Comune di Riomaggiore. Si racconta che i due giovani, allora sui diciannove vent'anni, raggiungessero Bonassola a piedi, attraverso i monti, dopo due giorni di cammino e che Antonio Discovolo, sceso una mattina in spiaggia sul far dell'alba per andare a dipingere, li scorgesse per caso profondamente addormentati dentro una barca in secca. Così ricorda anche Mauro Discovolo sul filo dei racconti uditi dalla bocca del padre quand'era ragazzo. A proposito di quest'episodio, c'è da tener conto che Aprigliano e Caselli furono in gioventù degli instancabili camminatori, specie Aprigliano che se l'amico non aveva voglia di muoversi o ne era impedito, non esitava a compiere da solo lunghe camminate sui monti delle Cinque Terre e dell'alta Lunigiana alla ricerca di paesi e paesaggi a cui ispirarsi per i suoi dipinti, anche perchè, com'è risaputo, la sua vena
pittorica si è sempre manifestata soprattutto in senso paesistico e dalla realtà naturale di questa nostra terra ha sempre tratto gli stimoli più schietti.
Giovanni Petronilli, che gli fu molto amico, in uno scritto apparso in un fascicolo del 1936 della rivista romana "La Festa", cogliendo l'aspetto idilliaco che costituisce uno dei motivi caratterizzanti della sua pittura mite e serena, vera e propria immagine di pace e di letizia, lo definiva affettuosamente "il pittore delle casette". A questo punto sarà però opportuno precisare, ad evitar malintesi da parte di chi non lo conosca adeguatamente, che Aprigliano, oltre che pittore delle "casette" come molto bene lo ha indicato Petronilli, fu anche pittore degli spazi solenni, dei paesaggi dominati dall'alto, in piena aria, specie quelli delle Cinque Terre, e in particolare Riomaggiore, Manarola, Vernazza, che rappresentano nella sua opera un leitmotiv di raffinata musicalità, nonchè quello di Porto Venere, forse più d'ogni altro diletto al suo cuore, dipinto e ridipinto, nelle varie epoche del suo lavoro, in ore e stagioni diverse, dall'alto e dal basso, davanti e di lato, per sorprenderne nella mutevolezza delle luci e dei colori l'inafferrabile immagine.
Ma forse è ormai d'uopo cominciare a ricordare, accanto al pittore, anche lo xilografo. L'Era della Xilografia ha inizio alla Spezia, sulla strada aperta da Emilio Mantelli, attorno al 1910 e Aprigliano ne diverrà in seguito uno dei personaggi principali. Gli incontri con Mantelli e con Lorenzo Viani nella fiaschetteria di Biagioni, dietro l'antica tettoia del pesce di piazza del Mercato, nell'isolato, per intenderci, che oggi è delimitato da un lato dal cinema Cozzani e dall'altro dal negozio di abbigliamento delle "6 porte", dove si poteva gustare un bicchiere di buon toscano con la probabilità di incontrare qualcuno degli artisti e scrittori che erano soliti capitarvi, avevano acuito l'interesse di Aprigliano per l'arte dell'incisione in legno. Forse ancor più che il segno morbido e afferrante di Mantelli, aperto alle più sottili eleganze letterarie, aveva colpito Aprigliano il segno spavaldo e aggressivo di Viani da cui nascevano, tra il balenìo dei bianchi e dei neri, quelle sue figure scavate dal dolore e dalla miseria. L'Aprigliano xilografo sentì probabilmente agli inizi più Viani che Mantelli, traendo comunque dalla lezione dell'uno e dell'altro la spinta di cui aveva bisogno per sciogliere la mano e abituare l'occhio a cogliere di colpo l'immagine da sprigionare dal legno.
Per una di quelle improvvise illuminazioni della fantasia che soltanto il caso rende possibili, in quel torno di tempo vennero svolgendosi nella nostra piccola città, la quale stava crescendo secondo i disegni di Cavour e Chiodo che ne avevavo legato i destini alla marina militare, due avvenimenti di straordinario interesse che non riguardavano nè il porto nè l'arsenale, ma bensì l'arte della xilografia, che in un certo senso dimenticata dagli stessi artisti, si voleva far rifiorire.
Nella città in cui Mantelli ne aveva tenuto alti in quegli anni i valori col suo prestigioso lavoro, nasceva nel 1911, per iniziativa di Ettore Cozzani e di Franco Oliva, l'Eroica", rivista di scelto gusto nella veste e nei contenuti, la cui serie di 310 quaderni pubblicati dal 1911 al 1917 alla Spezia e quindi a Milano, fino al 1943, epoca in cui dovette essere sospesa a causa degli eventi
bellici in corso, fu la bandiera della rifiorente xilografia italiana e lo specchio di un mondo artistico e letterario racchiuso nella cornice del suo tempo. L'altro avvenimento fu l'esposizione internazionale della xilografia, mai realizzata a quanto pare prima d'allora, che si tenne a Levanto per iniziativa dell`Eroica" nel 1912. La mostra fece il punto sullo stato della xilografia in Italia con la presentazione di opere dovute fra gli altri a De Carolis, Melli, Costetti, Spadini, De Albertis, Marussig, Labò, Disertori, Sensani, Guarnieri. Degli spezzini erano presenti, oltre naturalmente a Mantelli, Giovanni Go-vernato, che avrà più tardi una ribollente stagione di pittore futurista e Cafiero Luperini, pittore, decoratore e xilografo che lavorava con sorridente spontaneità nel clima del liberty e che si trapiantò in seguito a Roma, abbandonando la xilografia e dedicandosi con crescente impegno, oltre che alla decorazione e al mosaico, alla scenografia teatrale e cinematografica.
Aprigliano aveva appena vent'anni e non era ancora pronto per una mostra di quella importanza, come del resto Gamba, che aveva preso a frequentare da un paio d'anni lo studio di Del Santo contemporaneamente a Carmassi, il quale vi era stato ammesso presentandgkliciamo come prova d'arte, un ritratto del campione ciclista Luigi Ganna, il grande vincitore del primo Giro d'Italia, desunto da una fotografia pubblicata nella "Gazzetta dello Sport", sul quale si era espressa la considerazione del maestro.
Nella formazione di Aprigliano, e del resto anche in quella di Gamba e di Caselli (quest'ultimo ai primi approcci col legno) quegli avvenimenti, gli incontri e i rapporti che ne derivarono con artisti di gran nome, ebbero il loro significato contribuendo a incoraggiare in essi l'amore per l'arte della xilografia, che si rivelava adesso ai loro occhi più che mai ricca di fascini. Dei tre, Aprigliano fu il solo che, attraverso gli anni della sua lunga operosità, continuò a coltivarla di pari passo con la pittura, mandando avanti l'una e l'altra con totale partecipazione che si rileva dagli esiti positivi raggiunti nei due campi. In Gamba, invece, l'impegno xilografico finì per dominare su quello pittorico e a Milano, dove la sua arte fiorì quando più tardi si trasferì in Lombardia, fu soprattutto noto come maestro dell'incisione in legno. Quanto a Caselli, poi, fu quello dei tre che si accostò alla xilografia con minore entusiasmo, forse considerandola rispetto alla pittura un'espressione appunto minore della sua ricerca. (Ma non bisogna dimenticare le xilografie di Mathausen, così drammatiche e amare che in quanto a forza espressiva tengono testa ai dipinti).
Il caso di Aprigliano è diverso. Egli è fondamentalmente un grafico e anche quando dipinge si sente che questa predisposizione naturale non lo abbandona perchè costituisce un po' il palpito vitale della sua arte. Spesso i suoi dipinti nascono su un'ideale trama grafica magari appena accennata, accennata con sottile grazia, come per dare al colore una diversa accensione, come per esaltarne la forma, sempre casta e pulita, in una dimensione lirica più gustosa e pungente. Il fatto è che nella sua linea espressiva la comunione tra segno e colore che si attua tra dipinto e disegno, tra pittura e incisione, è sempre continua e profonda. Il colore, il gusto del colore o, se vogliamo, il pensiero del colore, vive nelle sue xilografie in quel segno fastoso che invade lo spazio con morbidezza sinuosa disegnando coste, monti, case, figure e personaggi come nel trapunto di un arcano ricamo. Prendiamo a caso qualche xilografia tra quelle che prime ci capitano a mano, che so?, l'immagine della trasognata Vernazza che ha ornato "Il regno perduto" di Cozzani, il vigoroso autoritratto col piccolo ricordo di Roma, o quelle che rievocano con tenerezza gli aspetti (quasi vorrei dire i sembianti) di Manarola, di Riomaggiore e di Monterosso, forse incisi prima nella memoria che nel legno, e infine quella maestosa e possente visio¬ne di Porto Venere sorpresa in un soprassalto d'estro e affidata al tempo nell'incantesimo dell'arte. In esse, e in molte altre xilografie che non è ora il caso di citare, il pensiero del colore è appunto una presenza vibrante che illumina il segno di una luce interiore.
Allo scoppio della guerra, nella primavera del '15, Aprigliano è tra i primi a partire per il fronte, forse senza nemmeno preoccuparsi di fare a se stesso un consuntivo del lavoro svolto in quegli anni, nei quali è andato conquistando sempre maggior considerazione nella cerchia degli estimatori che gli si sta formando intorno. Ma è arguibile che prima di incaricare Ivo, il penultimo dei suoi fratelli, che diverrà più tardi un audace e fantasioso "uomo del filo", esibendosi con successo nelle piazze delle maggiori città, di custodirgli lo studio che aveva frattanto aperto a San Cipriano, nei pressi dell'ospedale civile, Ercole abbia pensato con tenerezza al suo lavoro di quegli anni e soprattutto a quel disegno a carboncino in cui con spirito arguto ha ricordato la grande stanza dello studio di Del Santo destinata agli allievi e nella quale lui stesso ha cominciato, allampanato ragazzo dallo sguardo mite e curioso, a disegnare e a dipingere. Questo disegno ha infatti, oltre a quello artistico, un valore sentimentale e documentario perchè appunto nella stanza severa, ammobiliata come la sala da pranzo di una casa borghese con un grande tavolo rotondo al centro e due grandi finestre ai lati, è nata e cresciuta, nella ricca covata tirata su da "Felissin", la pittura spezzina dei nostri giorni.
La guerra comunque non impedisce ad Aprigliano di dipingere, disegnare e incidere, ogni volta che l'occasione si presenta, per cogliere motivi e momenti del mondo che gli si agita intorno. È difficile stabilire, anche per la precarietà in cui si è svolta questa nostra improvvisata ricognizione, e in particolare perchè la gran massa dei documenti, lettere, giornali, appunti e quant'altro può riferirsi al lavoro dell'artista non ha potuto essere ancora setacciata e posta a disposizione degli studiosi, quali opere di quel periodo bellico siano giunte fino a noi, e dove e in quale stato oggi si trovino. Ma un'impressione del mercato di Udine, vista per caso in questi giorni, rappresenta una testimonianza della sua pittura di allora e rafforza l'augurio che proseguendosi le ricerche possano aversi altri rinvenimenti di non minore interesse.
Con la fine della guerra i pittori spezzini riannodano le file in cui la scomparsa di Mantelli, avvenuta proprio il giorno dell'armistizio a causa di malattia contratta in guerra, ha lasciato un vuoto irreparabile. Siamo nel 1920 e Aprigliano è come sempre fra i più attivi e, come dice ammiccando, si fa in quattro per riagguantare il tempo perduto. In uno scritto pubblicato quasi quarant'anni dopo, nel numero del 21 novembre 1957 del "Corriere della Spezia", Carmassi
lo ha così ricordato: "Aprigliano, reduce dal fronte, che portava una curiosa barba nera e indossava la divisa di caporale della Croce Rossa, sembrava essersi dimenticato che la guerra era finita; e dovemmo ricordarglielo noi, un giorno, nel suo studio, dopo vivace colluttazione, alla quale presero parte con me Bardi, Gamba, Caselli, Cogliolo, togliendogli a viva forza di dosso, il vestito militaresco. Allo scherzo, Ercole rispose spiritosamente uscendo nel pomeriggio per la città in elegante doppio petto e bombetta".
È un piccolo episodio che rivela il clima spensierato e un po' euforico di quel ritorno a casa, che riapre il cuore alle antiche speranze e ai sogni di sempre. In quel clima, percorso peraltro anche da un fremito libertario contro la classe dei cosiddetti benpensanti che consideravano l'artista poco meno di un perdigiorno, nasce la "Zimarra", un cenacolo fondato, su ispirazione di Renato Cogliolo, da Aprigliano appunto, e da Carmassi, Caselli, Gamba, Governato, Luperini, Alberto Caligiani (un pittore pistoiese spesso alla Spezia), nonchè dallo scrittore di cose d'arte Pietro Maria Bardi, con l'intento di muovere le acque, reagendo all'ostracismo da cui un po' tutti si sentono fatti bersaglio. L'immagine della "zimarra", tolta di peso dalla "Bohème" di Puccini ("Non curvasti mai - il logoro tuo dorso - ai ricchi e ai potenti") assurge a simbolo di libertà e fierezza.
Il 28 marzo di quel 1920, la "Zimarra" fa la sua prima comparsa in pubblico con una festosa manifestazione intitolata "Inauguriamo la primavera", che si tiene, tra applausi, fischi, urla, discussioni e abbracci, al teatro Civico. Quindi, al principio di aprile, compie una tournée in Toscana con mostre, dizioni di versi, conferenze. È un successo. A Viareggio, Lorenzo Viani, recando anche le felicitazioni e gli auguri di Giacomo Puccini, accoglie al Kursaal gli artisti spezzini che incontrano tra gli altri Llelewyn Lloyd e Mosés Levy. A Lucca e Pistoia, con gli artisti e i letterati, anche le autorità locali salutano il gruppo. A Firenze, infine, sono festeggiati nella galleria - libreria di via Faenza dai pittori Piero Bernardini, Enrico Sacchetti, Galileo Chi¬ni, Plinio Nomellini e dallo scultore Mario Mo¬schi, con i quali intraprenderanno interessanti rapporti e scambi.
La bohème spezzina vive i suoi anni ruggenti in una splendida fiammata di entusiasmi e fer¬vori in cui vanno però bruciandosi anche le speranze e i sogni degli anni giovanili. Dopo qualche tempo il gruppo, che si è frattanto ingrossato per l'accostarsi di altri pittori e letterati, esaurisce la sua carica vitale e muore in silenzio sull'eco delle polemiche suscitate dalle ultime mostre. Ognuno va per la sua strada, ma la luce e il calore di quei giorni rimarranno nel pensiero di tutti, motivo di spinta, di approfondimento e di confronto. La "Zimarra" ha infatti svolto, checchè se ne sia detto o scritto, per invidia o incomprensione, un suo compito positivo essendo oltretutto valsa ad accelerare, attraverso contatti e rapporti, contrasti e discussioni, il processo di formazione e maturazione degli artisti che la fondarono.
Su questi eventi e su Aprigliano è interessante una testimonianza dovuta a Pietro Maria Bardi, critico e studioso d'arte spezzino che vive da ol¬tre trent'anni in Brasile dove dirige il museo d'arte moderna di San Paolo. Si tratta di una nota che Bardi, uno dei fondatori della "Zimarra", come s'è visto, ha scritto nel marzo 1963 e che si legge incorporata in un articolo su Aprigliano, "Fedele all'arte e al golfo di Shelley", pubblicata da Cesare Basini nella rivista "11 Mese" di Roma, numero dell'aprile 1964. Eccola: "Aprigliano venne all'arte ragazzo, autodidatta, polemico come tutti noi contro un'arte nemmeno accademica perchè insulsa in auge in una città che non era né sede di Tribunale né di Vescovo, ma solo un porto militare dove la cul¬tura era un barlume governato in fatti puramente locali di una storia malconosciuta o dimenticata. Aprigliano era uno scandalizzatore per certi suoi paesaggi espressionisti con figure ritagliate sulla sua, magra e altissima. Paesaggi sciabolati più che dipinti, con il disegno sopravvalente, ma belli di colore e arditi di taglio. Anche xilografo perchè alla Spezia era d'obbligo esserlo perchè l`Eroica" era lì ed era un paesaggio obbligato intorno ad un artista vero come Emilio Mantelli. Aprigliano era un poco l'animatore del gruppo, con poeti in erba, scrittori, personaggi di contorno, tutti giovanissimi che cercavano d'uscir fuori dalla città. Mi pare che poi tutti si sparpagliarono per il mondo: io sono il più lontano e sono brasiliano. Aprigliano deve essere quello che ha tenuto fede al golfo di Shelley, il rinunciatore alle lusinghe di fuori: anche questo è un merito. Ed è pena che io debba scrivere un ricordino di lui senza poter vedere come dipinge ora, senza dubbio bene".
Siamo ormai alle soglie degli anni trenta. L'epoca eroica della pittura spezzina non è più che un ricordo a cui il pensiero ritorna con ma¬linconia. Aprigliano che si è sposato nel 1924 con Maria Fareri andando ad abitare all'ultimo piano della casa di via Napoli 22, proprio dirimpetto al campanile della chiesa dei Salesiani, ha attrezzato nell'appartamento pieno di luce e di garrule voci sopraffatte talora dal suono delle campane il suo studio ed il laboratorio, con annessa scuola, della giovane sposa, che è maestra di rara valentia e di finissimo gusto nell'arte del ricamo. Maria Fareri, che gli darà tre figlie, sarà per Ercole una sposa impareggiabile, devota, affettuosa, piena di comprensione per il suo tormento di artista. Ricordandola in questa pagina (ella scomparve nell'ottobre del '59 nella casa di via 20 settembre 162 dove la famigliola si era poi trasferita) è doveroso per tutto ciò che ha dato, quasi dimentica di sè, purchè Aprigliano potesse liberamente dedicarsi alla sua arte anche nei momenti più difficili, che non furono pochi mentre la vita prendeva il sopravvento sui sogni.
Da allora, da quei remoti anni trenta, la vita di Aprigliano è stata fino in fondo, si è spento all'alba del 6 settembre 1975, una lunga e sbrigliata corsa attraverso la pittura, senza più le impennate della giovanile stagione (che lo avevano anche portato ad avvicinarsi al futurismo), ma nella meditata e consapevole conquista di quella sua linea espressiva che di giorno in giorno si farà sempre più limpida e dolce, com'è dell'animo dell'uomo che nel passare degli anni perde le antiche asprezze.
In gara col tempo, Aprigliano dipinge i suoi estatici paesaggi immersi nel silenzio della natura, quegli angoli di città e di paese in cui sorride la freschezza di un animo naif, le suntuose natu¬re morte nella tiepida penombra della casa, quei gioiosi mazzi di fiori dai teneri colori e i puntuali ritratti, a cominciare da quello fatto a se stesso in cui ha veramente trasfuso il battito della sua vita interiore. Affronta l'affresco, esegue vetrate, incide il legno con sempre più sottile maestrìa e soprattutto disegna. Tutti i giorni fino all'ultimo, nella casa di via 20 settembre dove da anni è rimasto solo con la figlia minore, disegna. Disegna con la penna, la matita, il car¬boncino, i pastelli: tutto è buono purchè lasci una traccia anche lieve sul foglio a segnare un pensiero, un'idea, un sospiro. Il disegno è la fiamma che accende la fantasia, illumina i ricordi, riscalda il cuore. Compagno più caro non potrebbe avere per la serenità di questi giorni nella città che ora gli fa riverenza e l'ossequia chiamandolo maestro. Maestro, proprio com'egli chiamava "Felisse" nell'antico studio dei suoi primi passi, dove era stato affettuosamente ribàttezzato Ercolino.
La Spezia, 7 gennaio 1978
Renato Righetti
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